Fatto sta che, quando hanno inventato questo detto, la maggior parte dei contadini e perciò della popolazione, non aveva soldi per comprarsi le scarpe e si andava a piedi scalzi per la maggior parte dell’anno.
Spesso, ma non sempre, davanti a casa c’era un catino con dell’acqua dove risciacquarsi i piedi prima di entrare e uno straccio appeso a un chiodo per asciugarsi.
Nella mia infanzia ho visto signorine, vestite “da la festa”, di domenica, andare scalze fin quasi al centro del paese (allora non sapevamo nemmeno che esistesse l’asfalto per le strade) con le scarpe in mano, per poi mettersele atteggiandosi a camminare come quando si entra in società.
Si usavano le “sgiavare” allora, con le suole di legno e dei rinforzi di ferro in punta e sotto il tacco, per renderle più durature. In casa si usavano le pantofole di lana cotta o di panno, solo d’inverno; le donne avevano un paio di zoccoli chiusi in punta, per andare ad accudire gli animali da cortile o coltivare l’orto.
Il mondo veneto è pieno di proverbi evocativi, spesso ancorati al buon senso popolare. Uno che mia nonna diceva spesso era questo: “No gh’è carne in becaria che prima o dopo no la vaga via”. Era il paragone che serviva a far pazientare le ragazze da marito che smaniavano di avere un “moroso“.
Peccato che sia andato in disuso, anche perché oggi si potrebbe completarlo con un’aggiunta: “ i mericani i n’ha libarà e adeso ne va ben anca la ciunga mastegà”. I costumi sono cambiati!
Ma noi torniamo ancora a usare i vecchi detti che ancora si sentono nelle osterie, quando si gioca a carte o nei capannelli delle comari al mercato. Sono pezzi di storia che resistono al logorio della vita moderna, alle trasmissioni televisive, alle preoccupazioni di tutti i giorni.
E così se ne va quel bel detto: “semo qua ne l’incertezza par inparare la pasienza”. Corriamo e perdiamo, forse, il senso di quello che siamo, diventando quello che vuole la società moderna. Ma siamo sicuri che stiamo andando nella direzione giusta? Oppure, quel ha scritto un poeta anonimo bovolonese ha un valore quanto un tesoro?
CATARSE
Stasera
mi e ti
Bupà
quando zà l’ombria su le rame del brolo
la se colegava
par poco
se semo ricatà
E lì
sentà
soto le vece piante
che t’è docià par tanto tempo
t’è guardà metare i buti
de le nostre robe care…
Emo ciacolà
Ti de le fiole
de la dona morta
e mi de quando era picinin
e quando fora da scola
vegnea ne la to botega
de marangon a vardarte pialàr.
E a sti ricordi,
Bupà,
la pipa la te tremava in man
E mi te vardava inbanbolà
E t’avaria dato el cor
E no solo na man.
Per mantenere il senso della nostra vita, consigliamo di far un giretto con la famiglia nella valle del Menago. Ci farà bene all’anima, per restare noi stessi.