La prima guèra vista da de chi

prima guerra mondialeIl centenario di Caporetto (24 ottobre 1917), lasciando agli storici e agli specialisti il giudizio critico sulla disfatta, offre lo spunto per una riflessione sulla guerra vista da qui, attraverso le testimonianze giunte dai nostri antenati. Nel primo conflitto l’intera regione Veneto fu dichiarata zona di guerra e così anche il nostro piccolo paese si trovò direttamente implicato nelle vicende belliche, seppur come territorio di retrovia perché il fronte insistette sulle montagne, da quelle del Trentino, al Grappa, fino al Carso.

Qui da noi, nella nostra pianura, ricordavano i vecchi, dall’altipiano di Folgaria, dal Pasubio, dall’altipiano di Asiago arrivava, cupa e sinistra, l’eco delle cannonate sparate dagli obici, dalle bombarde, dai pezzi da Novanta (chi usa più questi termini?) a diffondere inquietudine e a ricordare che là i nostri soldati soffrivano e morivano. Così per le spose e le madri, soprattutto, ogni rimbombo era una stretta, un tuffo al cuore, perché istintivamente pensavano a chissà quali danni quell’inquietante sordo rumore aveva prodotto, a chissà quanti “fioi de mama” aveva ferito, storpiato o ucciso, e fra quelli ci potevano essere anche i loro cari! E dei soldati, padri, fratelli o figli che erano al fronte, qui si sapeva poco perché le notizie filtravano a fatica, i contatti erano scarsi, avvenivano solo attraverso la posta e, nonostante la relativa distanza, andavano con lentezza per le difficoltà della guerra. Il servizio postale funzionava a singhiozzo e se, in zona di combattimento, il sacco delle lettere andava disperso, non c’era più nulla da fare. Quando andava bene, e cioè la lettera o la cartolina arrivava a destinazione, la gioia di chi la riceveva era così incontenibile che doveva essere condivisa con parenti, amici e vicini. Scrivere, però, era il più delle volte un’impresa o perché la gente, essendo analfabeta, doveva trovare una persona “istruita” disposta a fare loro questo favore o, perché, soprattutto in trincea, spesso mancava il necessario per scrivere.

Così la gente dipendeva dalle notizie ufficiali, da quello che riportava la stampa e poi veniva deformato dai “si dice”, senza sapere nulla o poco dei loro cari, e, quindi, non poteva fare altro che aspettare, trepidando e soffrendo. La guerra, oltre che sul morale, fece sentire ben presto i suoi effetti anche sul tenore di vita, di per sé già molto modesto, degli italiani. Nelle città i generi alimentari cominciarono a scarseggiare, le fabbriche furono costrette ad assumere donne anche nei ruoli maschili e nelle campagne l’agricoltura immiserì, visto che le forze migliori, quelle più giovani, erano a combattere al fronte. Data la prevalenza di famiglie patriarcali, quelli che erano proprietari o fittavoli in qualche modo riuscivano a tirare avanti perché i lavori nei campi erano condotti dalle donne, dagli anziani, dai ragazzi per cui, nonostante il calo, la produzione comunque consentiva di sopravvivere. Ma per i braccianti, che erano una fetta consistente della società e quella più debole dal punto di vista economico, le condizioni di vita peggiorarono molto perché “i òmeni abili”, i maschi in età, quelli che normalmente guadagnavano il modesto salario che permetteva di sopravvivere, “i era via soldà” erano sotto le armi, e quindi le loro famiglie, di fatto, si trovarono improvvisamente senza alcuna risorsa, e si dovevano arrangiare da sole, con mezzi di fortuna. Quindi la miseria, che già dominava, col passare del tempo crebbe a dismisura.

Quando l’Italia entrò in guerra, a livello nazionale era aspra la polemica tra interventisti e neutralisti. Ma questa discussione riguardava la parte più istruita della popolazione: la gente comune non ci capiva molto ma sapeva soltanto che avrebbe fatto volentieri a meno della guerra e quando partiva per il servizio militare era consapevole di andare con tutta probabilità a morire. Tuttavia partiva e lo faceva per obbedienza e rispetto dell’autorità e della legge, o, semplicemente perché non poteva fare altro: infatti i casi di ribellione o diserzione furono veramente pochi. Stringendo l’orizzonte al nostro paese e tenendo conto che i dati sono approssimati ma attendibili, si può affermare che la guerra bussò a quasi tutte le famiglie: circa il sette per cento della popolazione del nostro comune, che allora contava circa 2800 abitanti, fu distolto dal lavoro e mandato a fare la guerra, con grave sacrificio personale e collettivo.

Prima guerra Mondiale PeagnoE furono anni di sacrifici morali ed economici per tutti. Durante la rotta di Caporetto, poi, si temette che il nemico arrivasse al Po, il che sarebbe equivalso a un disastro per la nazione e una disgrazia immane per il nostro territorio, perché molti sarebbero fuggiti sotto la pressione del nemico invasore e chi fosse rimasto avrebbe subito angherie e tormenti di ogni genere, per bene che andasse. Per nostra fortuna, nonostante i timori, questo non avvenne e così solo l’oltre Piave sopportò le vessazioni dell’invasione, ma qualcosa si vide concretamente pure da noi perché gli sfollati del Friuli, sparpagliandosi per l’Italia, arrivarono anche qui da noi. Inoltre, dato il bisogno di soldati per il fronte, fu sospesa o aggirata la legge che prevedeva l’esenzione dal servizio militare per ogni terzo figlio e i giovani nati nel 1899, i ragazzi del 99, partirono anche da Sanguinetto. Inoltre la linea ferroviaria Mantova-Padova, il principale mezzo di trasporto dell’epoca, visto che il traffico su gomma praticamente non esisteva, collegava direttamente il nostro territorio alla guerra: seppur sperduto nella pianura, Sanguinetto, grazie al treno, era facilmente raggiungibile dai grandi centri. Fu così che Palazzo Betti, la Chiesa e il Convento dei frati nel febbraio del ’18 furono adibiti a sede dell’Ospedaletto Militare da Campo 0126, proveniente dal Friuli occupato dall’Austria in seguito alla rotta di Caporetto. E fu un presidio importante che accolse feriti vari ma soprattutto persone sconvolte nella psiche. La guerra, infatti, con le pallottole dei fucili e delle mitraglie, con le bombe dei cannoni, con i gas, con l’indicibile vita di trincea e i disumani assalti da macello, oltre che far morire e ferire spesso faceva anche impazzire, provocando enormi tragedie individuali. Una testimonianza indiretta, derivata dal contatto della popolazione con i feriti e i ricoverati, ci è rimasta nell’espressione coniata allora e allora entrata con crudezza anche nel nostro parlare (sia nel Veneto come a Sanguinetto): “semo de guèra”, scemo di guerra, cioè menomato mentale per cause di guerra. Quella frase ormai non ha più significato o, data l’identità di suono fra scemo e siamo nel nostro dialetto, può prestarsi a un’interpretazione ironica ed essere intesa come se volesse dire “siamo in guerra”. Ma la gente era colpita dalle ferite che i ricoverati dell’Ospedale mostravano nel loro fisico o nella loro psiche, mente vagavano per il paese, senza una meta, con l’aria smarrita di chi è fuori di sé e privo di orientamento. Sull’esempio della Croce Rossa, si ebbero allora le prime concrete forme di solidarietà e di volontariato spontaneo: le ragazze di buona famiglia, quelle che avevano più tempo libero e che godevano di una relativa autonomia di movimento (dobbiamo sempre tenere presente che parliamo della società di un secolo fa e della mentalità del tempo), prestarono la loro opera come infermiere occasionali o come dame di compagnia per portare un po’ di sollievo a quei soldati feriti, soli e lontani dai loro cari. E mi riferisco a Rosalbina Betti, figlia dei proprietari del palazzo, la futura sposa del generale Giuseppe Parodi, a Mira Dionisi, a Rachele Faella, a Maria Longhi, a Ginevra e Maria Marcantoni, alla Contro e alla Roghi e ad altre il cui nome si è perso, scintille di altruismo e consolazione tra gli orrori e le crudeltà della guerra.

Giuseppe Vaccari, da “el Peagno”, nov.-dic. 2017

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