Negli anni Cinquanta il mese di maggio era contrassegnato non solo dall’intensificazione della recita del Santo, ma anche dalla partenza di tante donne e ragazze per andare a lavorare nelle risaie della Bassa Lombardia e Piemonte.
Si partiva a metà maggio e si tornava per la fine di giugno. Per molte famiglie era una stringente necessità, dato che si portava a casa un discreto salario e un certo quantitativo di riso. I contratti di lavoro e i regolamenti dicevano che le donne dovevano aver compiuto la maggiore età, ma spesso capitava che anche ragazze molto giovani, addirittura di 14/15 anni, si dichiarassero maggiorenni alla partenza e venissero comunque assunte al lavoro al loro arrivo.
Scese dal treno, si fermavano in un ambulatorio medico, dove venivano distribuiti i medicinali e le pomate necessarie per affrontare il lavoro in risaia. Alloggiavano sotto i portici o i fienili delle fattorie, le più fortunate in vere e proprie camerate con un solo bagno; per materasso riempivano grandi sacchi con la paglia.
La giornata iniziava alle quattro della mattina, anche perché spesso bisognava intraprendere un lungo tragitto a piedi per portarsi alla risaia da mondare. Alle sei iniziava il lavoro vero e proprio. Si entrava a piedi nudi nell’acqua gelida, affondandoli nella melma. Il lavoro consisteva nel togliere le erbe infestanti e nel diradare le piantine di riso che crescevano troppo vicine, per trapiantarle dove invece mancavano. Spesso le mondine si ferivano le mani, perché sotto trovavano spuntoni e residui delle coltivazioni precedenti. Ogni tanto qualcuna lanciava un urlo, per il fatto che qualche biscia le stava “accarezzando” le gambe.
Alle nove si faceva una prima sosta per mangiare un panino e alle dodici si fermavano un’oretta per il pranzo: una minestra di lardo pestà e fagioli. La giornata lavorativa terminava alle 17. Al ritorno al cascinale, si lavavano, consumavano la cena e … via, subito a letto. Solo le più giovani ridevano e chiacchieravano fino a tardi, anche se sapevano che il mattino non avrebbe tardato ad arrivare.
Un lavoro molto duro quello della mondina, ma vissuto serenamente. Un antidoto per sconfiggere la fatica era rappresentato dal canto, permesso dal castaldo durante il lavoro, ma intonato anche la sera prima di dormire, per ritemprarsi nel fisico, infondendo nuova forza morale per proseguire l’indomani. A seconda di come le mondine avvertivano l’esperienza vissuta, una stessa melodia poteva essere cantata con parole diverse. Eccone un esempio:
“Senti le rane che cantano
che gusto, che piacere,
lasciare la risaia
tornare al mio paese”.
“Amore mio non piangere
se me ne vado via,
io lascio la risaia
ritorno a casa mia”.
Lo spirito di gruppo, non solo aiutava a superare le fatiche della giornata, ma corroborava un’amicizia bella che ti donava la forza di ridere e di sperare in un futuro migliore.